A Gesù devo la
mia attuale serenità, il mio benessere, la mia fortuna.
È sempre stato molto presente in tutta la mia vita, fin dall’inizio,
e ancora oggi, che ho una certa età, non faccio che ringraziarlo.
A frotte vengono a trovarmi i cristiani.
Aspettano che esca di casa per baciarmi le mani, senza dire una
parola e senza neanche guardarmi in faccia. Io stendo il braccio,
loro si inginocchiano e, con gli occhi gonfi di lacrime, se ne vanno
come sono venuti, in silenzio.
Sanno della mia somma riconoscenza, che sono stato miracolato da
quell’uomo dall’infinità bontà. Oggi sono in pensione, ho quattro
figli sparsi per il mondo, ognuno in pace con se stesso e dedito a
costruirsi un futuro che mai avrebbero potuto avere se io, tanto,
tanto tempo fa non avessi incontrato Gesù.
Io sono nato povero, più povero di una foglia caduta dall’albero.
Vivevo in un villaggio tra brulle colline in mezzo al niente. Dove
abitavo io non c’erano case ma ruderi cadenti, grotte, bicocche
tenute dritte da pali marci.
I miei fratelli e io aiutavamo mio padre a cercare di nutrire bestie
magre come trampoli, pecore, somari, galline e mucche.
Di otto fratelli eravamo rimasti in tre, fame e disgrazie si erano
portate via gli altri, nel giro di poche stagioni.
Non avevo ancora compiuto sei anni quando sopraggiunse un inverno
così feroce da meritarsi una lunga citazione nei memoriali
dell’epoca. Venne giù addirittura la neve, sembrava di essere al
polo nord.
Non eravamo attrezzati, hai voglia a coprirti, la legna per il fuoco
la bruciammo tutta in una settimana. Ricordo come fosse adesso
l’ultimo falò davanti alla nostra stamberga, ricordo le lacrime di
mia madre quando le portammo via il comodino e la sedia rimasta.
Le notti tremavamo tutti e cinque, attaccati uno all’altro come
abbracciati a un calorifero.
Ma niente da fare, sentivamo che dentro di noi il sangue gelava
pericolosamente e invece di scambiarci un po’ di tepore ci sembrava
di dormire sulla neve. Solo il pianto ci arrossava appena le guance.
Così piangevamo crollando dal sonno.
Un
giorno mio padre ebbe una bella idea, portò tutti noi nella stalla
dov’erano ammucchiate le bestie. Come tetto c’erano stracci e l’aria,
densa e tiepidiccia, puzzava da soffocare. Ci sdraiavamo tra gli
animali, i piedi al calduccio, infilati nel loro sterco fumante.
Andammo avanti così a lungo, aspettando la primavera.
Una notte fui svegliato da un improvviso tramestio.
Vidi che mio padre parlottava con alcune ombre mezze incappucciate.
Discutevano fittamente e sottovoce. Alla fine quelli si portarono via
una mucca e un asino, trascinandoli fuori legati con una corda.
Chiesi spiegazioni a mio padre: mi disse che in una grotta vicina era
appena nato un bambino e aveva bisogno di essere scaldato.
Io lì per lì scoppiai a piangere di rabbia, per la prima volta vidi mio
padre occuparsi delle sventure altrui, e questa novità mi spaventò
profondamente. Non chiusi occhio perché senza quei due animali sentivo
più freddo che mai.
La mattina dopo volli andare a vedere che fine avevano fatto le nostre
due bestie. Davanti alla grotta del neonato, nello slargo pieno di neve,
c’era un sacco di gente, pastori, pastorelle, maniscalchi, calzolai,
semplici curiosi e donne con la brocca sulla testa e in giro c’erano
anche tante oche e somarelli con il basto.
Mi feci largo piano piano finché mi fermai sulla soglia della grotta.
Stava lì la mia bella mucchetta e masticava erba secca col muso sulla
greppia.
L’asinello invece era immobile dalla parte opposta, le palpebre a metà
per il sonno. L’odore che sentivo era quello di casa mia, ma c’era anche
un vago sentore di legno lavato e di miele.
Seppi più tardi che quel bambino si chiamava Gesù, proprio quando
riportarono indietro la mucca e l’asino.
Furono mesi di trambusto quelli che seguirono, i soldati del re Erode
andavano in giro ad ammazzare tutti i neonati sotto i due anni. Nostro
padre stava tranquillo perché il mio fratello più piccolo ne aveva
quattro passati.
Quando chiesi perché il re di Gerusalemme aveva deciso di sgozzare i
bambini piccoli, mi risposero che voleva togliere dalla circolazione
quel Gesù: infatti molti dicevano che avrebbe un giorno preso il suo
trono. Ma i genitori avevano portato la loro creatura lontano,
addirittura in Egitto. Quello che non fece il freddo ai bambini lo fece
Erode con la spada.
La vita riprese come prima, e inverni così rigidi non tornarono più.
Per anni di Gesù non seppi più nulla.
La mucca non durò tanto a lungo, la mangiammo durante tutto l’inverno
successivo dopo averla ben bene conservata a pezzi sotto sale.
L’asinello morì molto più tardi, forse di vecchiaia perché aveva le
ciglia bianche.
La voce che Gesù ne combinava di tutti i colori arrivava sempre più
insistentemente dalle mie parti. Molti ne parlavano male, pochi ne
parlavano bene. Di vero c’era che a Gerusalemme, tra i magnati, sia
indigeni che romani, cresceva una certa preoccupazione.
Tanto che si andavano infoltendo alquanto le truppe dei soldati addetti
alla sicurezza. Io ero diventato un giovanotto di muscoli, temprato da
un vivere stento e faticoso.
E in più, come tutti i giovani, scalpitavo, volevo lasciare le colline
desolate per prendere di petto un altro futuro, per dare un diverso
corso al mio destino.
Mi arruolai, però mi misero a scuoiare conigli per gli affamati soldati
di Roma. Non fa niente, da qualche parte bisogna pur cominciare, una
casa si costruisce cominciando dalle fondamenta.
Non vidi mai né il governatore Ponzio Pilato né Gesù Cristo, affondato
com’ero nelle basse cucine del mondo.
Ogni sera, con la pomice, mi scrostavo di dosso il sangue secco dei
conigli e andavo a dormire.
Si diceva che Gesù facesse dei miracoli, non ci credeva nessuno.
Ma io, prima di addormentarmi, volevo sognare di incontrarlo per
chiedergli il miracolo di farmi uscire dalla melma dov’ero finito, non
certo meno nauseabonda di quella che avevo lasciato a Betlemme. D’altra
parte io gli avevo prestato un po’ del mio calore.
Passarono gli anni e finalmente mi dotarono di una spada e di uno scudo.
Mi stava un po’ stretto l’elmo e non riuscii mai a trovare qualcuno
disposto a fare cambio.
Un giorno andai vestito così da mio padre, che mi accolse come un re.
Squartò un agnello e facemmo mattina mandando giù mezza botte di vino.
Gli parlai della mia carriera che cresceva come il grano sotto un cielo
quasi sempre azzurro.
Mio padre, ormai vecchio e coperto dalle cicatrici di mille malattie
guarite dal sole e dai dolori, aveva negli occhi lo sbigottimento di chi
sta facendo i conti con la morte.
Piuttosto che parlarmi mi guardava.
Solo alla fine provò a cucire un discorso. Mi parlò confusamente di
obbedienza, senza mai nominare la legge o i superiori, nella gerarchia
degli uomini a cui si deve ossequio.
Negli ultimi anni aveva capito che il nutrimento necessario alla sete di
gloria è senza sostanza se lo si sottrae agli altri. Non si era mai
espresso così.
Mia madre, alle sue spalle, mi faceva segno di lasciarlo parlare.
Più tardi, in disparte, mi riferì che il marito aveva preso la vecchiaia
contropelo e che presto ci avrebbe lasciato. L’ultima volta che l’ho
visto neanche mi ha riconosciuto. Ha chiuso gli occhi guardando le
nuvole.
Pensai che facciamo tutti una brutta fine, perché una sola è la sorte
per i figli dell’uomo e per le bestie: la morte.
Così, fedele alle parole di Qohélet, decisi di buttare ogni mia forza a
procurarmi felicità da vivo.
Tornato nel brulicare di tutti i giorni non mi lasciavo sfuggire la
minima occasione per accaparrare qualcosa. Ci dedicai tanto di quello
zelo che riuscii perfino a mettere da parte poche preziose monete. I
miei superiori finalmente si accorsero di me, sapevano di poter contare
sulla mia onestà e fedeltà.
Mi misero alla prova facendomi fare la guardia di qua e di là o il
carceriere, e ogni tanto mi mandavano in missione o in perlustrazione
nelle zone più lontane. L’unico cruccio era quell’elmo troppo piccolo e
ballonzolante, che dovevo tenere fermo con la mano quando correvo.
Ed
ecco giungere inatteso il giorno più fortunato della mia vita, il
miracolo che tanto aspettavo. Avevano catturato, processato e condannato
a morte Gesù. Potevo finalmente vederlo, perché facevo parte del
servizio d’ordine nel tragitto che il criminale doveva fare, con la
croce sulle spalle e una corona di spine intorno alla fronte, fino al
monte Calvario.
Stavo lì a tenere a bada la folla che si accalcava sul sentiero. La voce
m’era andata via a forza di gridare a questo e a quello. Fui contento
quando il mio diretto superiore mi fece un cenno di approvazione. Mi
vedeva saltare da una parte all’altra con la frusta in mano, dando
spallate a chi si avvicinava troppo.
Molti infatti volevano dar calci al prigioniero, mentre altri, al
contrario, si facevano avanti per aiutarlo a rialzarsi quando cadeva a
terra senza più forze.
Arrivati sul luogo della pena, bisognava inchiodare Gesù alla croce.
E quando vidi che tra i miei commilitoni qualcuno esitava, mi feci
subito avanti.
Nessuno era più avvezzo al sangue di me, che avevo sgozzato migliaia di
conigli. Accettammo in quattro. La croce era adagiata sul pietrisco. Due
si occuparono dei piedi, io e un altro delle mani.
A me toccò la mano sinistra.
Il cielo girò e si mise sul brutto.
Devo dire che Gesù si lasciò fare, non provò nemmeno a tirare indietro
il braccio e questo mi facilitò il compito. Il chiodo era di quelli
grossi, un po’ arrugginito. Lo puntai proprio al centro del palmo e con
pochi colpi lo conficcai fino in fondo.
Gesù, seppure maciullato e con il volto rigato di sangue, mi guardava,
guardava solo me.
Picchiavo con il martello e gli dicevo piano che da piccolo, quando lui
era appena nato, gli avevo prestato la mia mucca e il mio asino.
|