L’androne è semibuio, la piccola lampadina gialla e nuda non riesce che a far scorgere pochi foschi particolari e lunghi profili di ringhiere e scale proiettati sulle pareti un tempo bianche e ormai scrostate. Qualche macchia di muffa qua e là passerebbe quasi inosservata se non fosse per l’odore pungente che la tradisce colpendo le narici di Giulio che entrato di corsa dalla strada, si scrolla la pioggia che ha sull’impermeabile sdrucito, sbattendo forte i piedi sul pavimento grigio asfalto. Il rumore del percuotere rimbomba per l’antro alto e stretto fino ai piani alti di quella casa popolare. Giulio sposta lo sguardo sulle cassette delle lettere di legno logoro ma ancora dignitoso, il vetro riflette l’azzurro dei suoi occhi che scrutano le etichette ingiallite alla ricerca di un cognome noto. Si passa una mano sui lunghi e scuri capelli fino a lisciarsi la barba poco curata e sorride pensando che in fondo sapere chi abita lì non è poi così importante. Lentamente si volta e sale il primo gradino, in quello stesso istante, al primo piano, una porta si apre con violenza e viene richiusa con altrettanto furore. Frettolosi si sentono i passi di chi sta scendendo di corsa, passi accompagnati da imprecazioni per niente velate, in un dialetto che non è quello di Giulio ma che comunque lui capisce benissimo. L’individuo lo sfiora sul primo pianerottolo senza nemmeno curarsi di lui quasi non lo vedesse o non esistesse e continua la sua rabbiosa discesa fino a far rimbombare i suoi passi nell’androne e dopo aver nervosamente trafficato sulla maniglia del portone finalmente lo apre ed esce sbattendo pure quello dietro di sé. Giulio attende che l’eco di tutta quella furia si quieti e le scale tornino alla neutra tranquillità di sempre, poi, lentamente riprende a salire. Arrivato al primo piano si trova di fronte a tre porte, tre appartamenti. Accanto alle porte di legno laccato marrone scuro c’è un campanello di ceramica bianca col pulsante rosso di lato ed a fianco un’etichetta con il nome di chi occupa i locali. Senza leggere alcunché Giulio bussa alla prima porta, più lucida delle altre e con una bella targa di ottone sul lato sinistro che fa bella mostra di sé e del nome che vi porta inciso, dopo qualche secondo accosta l’orecchio all’uscio ma non sente nessun rumore all’interno, la sua mano destra dalle lunghe e affusolate dita si posa sulla maniglia di ottone a buon mercato e l’abbassa senza tuttavia ottenere l’apertura della porta che è chiusa a chiave; a lui sembra di sentire che una presenza all’interno ci sia, forse qualcuno che non si vuol far trovare. Si sposta di fronte alla seconda porta e anche lì bussa educatamente. Senza doversi avvicinare con il viso per ascoltare, sente all’interno una radio accesa che diffonde una canzone che da lì fuori dove lui si trova è incomprensibile, sembra quasi cantata in una lingua sconosciuta. Dall’interno dei passi si avvicinano all’uscio. - Chi è? - domanda una voce maschile, un poco rauca e scocciata.
Giulio si aggiusta l’impermeabile. - Sono io - risponde
- Io chi? - replica chi sta all’interno non riconoscendo la voce.
- Io - afferma con disarmante sicurezza Giulio.
La porta si apre, appare un uomo in canottiera che fa volteggiare fra incisivi e canini uno stuzzicadenti. Lo squadra dalla testa ai piedi e vedendo la mano destra di Giulio aperta come a chiedere l’elemosina esclama un “Ma va affan….”. Sbatte l’uscio in faccia a Giulio che rimane lì a sentire i piedi dell’individuo strascicare le ciabatte altrove. Giulio si volta verso l’ultima porta rimasta e prima di bussare tende l’orecchio per ascoltare se ci sono dei suoni familiari. Un vociare di bimbi lo raggiunge e anche le suppliche della mamma perché stiano un poco calmi, il tutto lo fa sorridere. Alza il pugno destro e le nocche sbattono contro il legno più consunto delle altre due porte. - Chi è - risponde all’interno una voce femminile senza nemmeno avvicinarsi alla porta.
- Sono io - risponde Giulio.
- Io chi? - chiede dall’interno la voce tradendo una punta di curiosità.
- Io - questa volta non riceve brutte risposte Giulio ma un - E che vuoi?
- Entrare - continua il dialogo Giulio.
- Entrare? E per fare che? Che vuoi? - ora la voce si fa preoccupata.
- Vorrei un poco di latte se ce l’hai e un panino magari, Maria - risponde sicuro e tranquillo Giulio.
Maria avvicina l’occhio destro allo spioncino e vede il giovane alto con i lunghi capelli scuri, la leggera barba, i suoi occhi dolci ed i vestiti poco curati . - Non ti conosco, mi dispiace. Vattene o chiamo qualcuno!
- Ti sbagli Maria, mi conosci - replica Giulio e senza attendersi altro rinuncia a salire verso i piani superiori e lentamente a capo chino ridiscende le scale, apre lentamente il pesante portoncino e lo richiude dolcemente dietro sé. Uscito in strada si alza il bavero per proteggersi dal freddo che lo investe e pensa.
- Gli esseri umani. Sono secoli che mi festeggiano ogni venticinque dicembre ma raramente quando mi incontrano mi riconoscono.
Con le spalle un poco curve e l’andatura ciondolante, si allontana mescolandosi fra la gente.